La diffusione capillare di messaggi e pratiche ecofriendly come risposta alla lentezza istituzionale negli sviluppi pattizi a tutela dell’ambiente
di Irene Pugnaloni
Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi… una smodata passione per le tematiche ambientali. Abbiamo preso a prestito una celeberrima canzone del cantautore italiano Lucio Battisti per introdurre un personaggio, quello dell’adolescente svedese Greta Thunberg, ormai diventato noto alla stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Nulla possono condividere il defunto Battisti e l’imbronciata Greta ma, ironia della sorte, la canzone che abbiamo poc’anzi intonato venne pubblicata all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, il decennio che, tra le altre cose, passò alla storia per gli shock petroliferi innescati dall’innalzamento esorbitante del prezzo del greggio e che, come conseguenza di tali shock, fece emergere una prima embrionale forma di preoccupazione per lo stato di salute del pianeta Terra.
Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi… una smodata passione per le tematiche ambientali. Abbiamo preso a prestito una celeberrima canzone del cantautore italiano Lucio Battisti per introdurre un personaggio, quello dell’adolescente svedese Greta Thunberg, ormai diventato noto alla stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Nulla possono condividere il defunto Battisti e l’imbronciata Greta ma, ironia della sorte, la canzone che abbiamo poc’anzi intonato venne pubblicata all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, il decennio che, tra le altre cose, passò alla storia per gli shock petroliferi innescati dall’innalzamento esorbitante del prezzo del greggio e che, come conseguenza di tali shock, fece emergere una prima embrionale forma di preoccupazione per lo stato di salute del pianeta Terra.
Se precedentemente agli anni ’70 l’interesse ambientalista era legato quasi esclusivamente ai timori sollevati dall’avvento del nucleare, da quel decennio in poi il sentimento ecologista si arricchì di una nuova anima. Col sopraggiungere delle difficoltà economiche su scala globale, iniziò ad incrinarsi anche la sfrontata convinzione ideologica ottocentesca che il progresso dell’umanità, soprattutto in termini economici, passasse necessariamente per un crescente dominio dell’attività umana sulla natura. Mentre le città si annerivano, le campagne scoprivano lo straordinario potere di fertilizzanti e diserbanti chimici dai dubbi effetti sul lungo periodo e i governi occidentali cercavano di divincolarsi dallo strangolamento energetico indotto dagli shock petroliferi, il mondo – o, meglio, una risicata fetta della popolazione mondiale – iniziava ad acquisire consapevolezza circa la limitatezza delle risorse disponibili e sui potenziali scenari di devastazione naturale che sarebbero potuti diventare realtà qualora non si fosse intervenuti per tempo rettificando il modus operandi della società coeva. Benché la tempistica lasciasse a desiderare, la Commissione sull’ambiente e sullo sviluppo delle Nazioni Unite produsse nel 1987 il Rapporto Brundtland, conosciuto anche col titolo “Our Common Future”, che andava ad avallare questa consapevolezza generale, introducendo al contempo l’innovativo concetto di sviluppo sostenibile, uno sviluppo che avrebbe dovuto tenere presente le generazioni future nei suoi calcoli costi-benefici, tradizionalmente arroccati dentro uno spazio temporale inconsapevole dell’esistenza di nipoti e pronipoti. Da quella data, i vertici internazionali sulle tematiche ambientali si sono susseguiti a ritmo costante, con alcune date – su tutte la conferenza a Rio de Janeiro del ’92, quella del ’97 in cui vide la luce il celeberrimo Protocollo di Kyoto, nonché quella del 2015 in cui venne sottoscritto il tanto discusso “Accordo di Parigi” – che passarono alla storia come pietre angolari del progresso verso una evoluzione in chiave sostenibile della società.
Ciononostante, messe a parte le dichiarazioni propugnate da governi e alti ufficiali, permane la sensazione che molto poco, troppo poco, si sia ancora effettivamente fatto per tenere alla larga i catastrofici scenari paventati da scienziati ed esperti di settore circa lo stato di salute del pianeta. Proprio sulla scia di questa crescente sensazione, il fenomeno dell’attivismo ambientalista sembra che stia tornando alla ribalta, in termini tanto quantitativi quanto qualitativi. Se gli ultimi summit mondiali sul clima hanno visto crescere la propria eco a livello internazionale è, forse, anche grazie all’opera di mobilitazione transnazionale promossa da svariate organizzazioni non governative. Emblematico, in tal senso, è sicuramente il caso della “Global Climate March” tenutasi alla vigilia della Conferenza di Parigi COP21 nel novembre 2015, che ha coinvolto più di 600.000 partecipanti (i numeri differiscono tra le varie fonti: l’organizzazione 350.org, una tra le più importanti promotrici dell’evento, riferisce una stima di poco inferiore alle 800.000 unità) in tutte le principali città del mondo con lo scopo di portare all’attenzione dei potenti riuniti nella capitale d’oltralpe la necessità e l’urgenza di negoziare un accordo più incisivo rispetto a quelli pattuiti in precedenza.
La crescita esponenziale del fenomeno dell’attivismo ecologista è, però, sicuramente legato alla figura di Greta, la quale, partendo dagli scioperi dinanzi ai palazzi del potere svedese per costringere l’establishment politico a rispettare gli impegni parigini, con i suoi “Fridays for Future” ha generato un’onda mediatica immane da cui nessun ambito sembra essere rimasto incontaminato. Lo sciopero generale degli studenti organizzato lo scorso marzo pare abbia superato il già eclatante numero di partecipati del “Global Climate March”, portando nelle piazze oltre un milione di persone, in larghissima parte adolescenti e pre-adolescenti (sempre secondo i calcoli di 350.org, la cifra si aggira sul milione e seicento mila presenze ma, in un editoriale del giornalista Paul Hockenos apparso sulla rivista online Foreign Policy il 10 aprile, si arriva a stimare un numero di presenze compreso tra il milione e seicento mila e i due milioni). Da allora, mentre da un lato la figura di Greta, idolatrata o sbeffeggiata, cresceva in popolarità internazionale, da un altro, sembra che il suo appello a una maggiore consapevolezza del nostro impatto ambientale abbia permeato ogni momento quotidiano. Dagli spot sulla birra, ai concerti, alla preferenza per il treno rispetto all’aereo per le trasferte, dagli imballaggi dei tuoi cereali preferiti, tutto passa ormai per una scelta “plastic-free”, “zero-waste”, “eco-friendly” o “stop climate change”.
L’ effetto Greta è stato da alcuni identificato come sinonimo dell’ondata di attivismo ambientalista che ha coinvolto la società civile al suo livello più basilare, ossia quello rappresentato da bambini e ragazzini in età scolare, storicamente poco attratto dal fenomeno delle manifestazioni di piazza. Tuttavia, se in un certo senso questa interpretazione può essere accolta, in quanto è indubbio il fatto che una partecipazione transazionale così ampia e una consapevolezza così diffusa su una tematica mondiale in questa fascia d’età possano considerarsi un evento innovativo, è pur vero che probabilmente l’effetto Greta dovrebbe più propriamente riferirsi al momento storico in cui, in maniera alquanto singolare, la stragrande maggioranza della popolazione civile sembra porsi interrogativi circa l’impatto ambientale delle scelte effettuate nella vita di tutti i giorni. Che fosse un fenomeno in fieri, una sorta di sentimento individuale e collettivo in formazione che, dopo lunghi decenni di incubazione, era comunque destinato a manifestarsi o che sia semplicemente sbocciato come un fiore primaverile stimolato dalla coraggiosa storia di Greta, potrebbe essere un dilemma irrisolvibile o la cui risposta potrebbe non essere rilevante. Diversi organismi internazionali hanno lavorato nel corso dei decenni affinché si potesse veicolare l’idea dell’urgenza ad agire per rallentare, arrestare e combattere il cambiamento climatico e per diffondere stime – rivelatesi sempre più allarmanti – circa l’approssimarsi della data di non ritorno, intesa come momento in cui lo sfruttamento delle risorse terrestri e l’impatto umano sull’intero ecosistema saranno stati tali da rendere irreversibili le conseguenze negative. Questi sforzi hanno generato una risonanza di modesta entità, anche in termini temporali: finito l’entusiasmo mediatico della conferenza o manifestazione di turno, spesso la tematica del cambiamento climatico è stata accantonata, riposta nello sgabuzzino insieme alle decorazioni natalizie in attesa di una nuova tornata di furore popolare. Ciò che sembra, pertanto, davvero travolgente nella storia della piccola Greta è, quindi, piuttosto il fatto che sia riuscita a rendersi protagonista (o promotrice, a seconda dei punti di vista) di un movimento transnazionale che coinvolge tutte le fasce d’età e le estrazioni sociali – benché alcune sembrino relativamente più restie a farsi contagiare dalla sensibilità ambientalista – e di rendere questo interesse protratto nel tempo e reattivo alla necessità di agire nel rispetto dell’ambiente a partire dai gesti quotidiani.
A ulteriore riprova del fermento bottom-up che si sta realizzando nonostante i continui tentennamenti e ripensamenti governativi nelle arene politiche formali internazionali funge l’esito delle elezioni del parlamento europeo. Dopo anni di tornate elettorali in cui si assisteva a una costante erosione della partecipazione, le elezioni dello scorso maggio hanno permesso di intravedere la fine del trend negativo instauratosi già dopo le prime scadenze elettorali, con un incoraggiante ritorno ad una affluenza alle urne di oltre il 50% degli aventi diritto al voto. Se questa è la prima novità di questa elezione, la seconda consiste nella sensibile ascesa della presenza dei rappresentanti dei Verdi, tanto da coniare l’hashtag#GreenWave. Dalla cinquantina più o meno scarsa di eurodeputati delle tornate precedenti, la coalizione guidata dai verdi ha infatti assistito a un aumento percentuale di oltre il 20%, arrivando a strappare 74 seggi, diventando così il quarto gruppo parlamentare per numero di rappresentanti benché la distanza quantitativa dai primi tre sia comunque molto ampia. Germania, Gran Bretagna e Francia hanno fornito il grosso dei rappresentanti verdi al parlamento europeo – congiuntamente 48 – ma vi sono stati anche eclatanti casi come quello lussemburghese in cui, dei soli sei seggi a disposizione, uno è stato conquistato proprio da un rappresentante dei Greens. Nelle parole degli esponenti dei Verdi, questo risultato è da attribuirsi, tra le altre cose, all’accresciuta sensibilità dei giovani verso le tematiche legate al cambiamento climatico e, quindi, alla corrispondenza di interessi tra i questi e la piattaforma promossa dal gruppo politico: ai neo elettori sarebbe, dunque, da attribuirsi almeno in parte il fenomeno dell’aumentata affluenza alle urne e, soprattutto, l’ampliamento della rappresentanza Green presso l’Europarlamento. Bisogna però osservare come il sentimento ecologista che si evince dai risultati delle urne sia piuttosto difforme tra zona e zona: in particolare, gli stati del sud e dell’est dell’Unione, ad esempio Grecia, Italia, Malta, Romania e i paesi Visegrad (con l’eccezione della Repubblica Ceca) sono risultati meno recettivi alle parole dei candidati ecologisti, i quali non sono riusciti a strappare un seggio in nessuna di queste realtà.
Va da sé che un giudizio più obiettivo sulla longevità del fenomeno, sul grado di diffusione di buone pratiche a livello individuale, collettivo e governativo, e sul livello di ritenzione dell’interesse ecologista, sarà possibile solo a distanza di tempo; tuttavia, bisogna ammettere che il fatto di percepire quotidianamente messaggi legati al cambiamento climatico, al rispetto per l’ambiente e a come agire per vivere in maniera più “eco-consapevole” ed “eco-compatibile”, come evidenziato qualche riga fa, è già di per sé una piccola rivoluzione a cui, a suo modo, Greta Thunberg ha sicuramente contribuito.