Europa, ricerca e interdisciplinarietà all’Università di Macerata


di Alessandro Colella, 20 novembre 2013

Mercoledì 13 novembre, si è tenuto, presso l’Aula Magna dell’Università di Macerata, il secondo di una serie di incontri finalizzati a creare consapevolezza su Horizon 2020 (nuovo programma europeo con cui la Commissione finanzierà  il settore Ricerca, Innovazione e Sviluppo), in modo particolare rispetto al tema delle “Social Sciences and Humanities” (SSH): “Verso Horizon 2020: la Prospettiva SSH”. Il 30 ottobre il Dott. Rossetti di Valdalbero, impegnato nella Commissione Europea all’interno della Direzione Generale che opera sulla Ricerca, aveva illustrato gli attuali cambiamenti nella società secondo la prospettiva con cui Horizon 2020 (H2020) inquadra i temi dell’Inclusività, dell’Innovazione e delle Società Riflessive.

L’appuntamento di mercoledì 13 novembre ha visto il Dott. Ing. Andrea Ricci, dell’Istituto Superiore per l’Integrazione dei Sistemi (Cooperativa ISIS, Roma), descrivere il modo in cui H2020 consente di correlare le nuove tecnologie con l’impegnativa categoria “Humanities”: “Humanities and new technologies”, questo il titolo del secondo incontro promosso dall’Università di Macerata, un’Università umanistica che, con molte (più o meno naturali) difficoltà, sta avvicinando il suo mondo della Ricerca alla sfida dell’innovazione tecnologica, fattore indispensabile per lo sviluppo dell’Unione Europea.


Il Dott. Ricci ha focalizzato la relazione sul tema dell’interdisciplinarietà, mostrando come la ricerca europea di stampo sociale, economico e umanistico, non possa più accontentarsi di essere una semplice industria della conoscenza, ma debba orientarsi con sempre maggiore consapevolezza verso le sfide sociali (sostenibilità energetica, cambiamenti climatici e demografici, salute, lotta alla povertà e all’emarginazione, sicurezza alimentare e agricoltura sostenibile, ricerca marina e marittima, bio-economia, benessere, sicurezza e inclusione sociale, ICT, società digitale e dell’informazione), cercando soluzionigenerando opportunitàcostruendo capacità. Su questo piano, le scienze sociali e umanistiche andranno a integrare la tradizionale capacità, propria della ricerca scientifico-tecnologica, di produrre innovazione per affrontare le sfide sociali. Esse potranno offrire, così, un contributo finalizzato a qualificare lo sviluppo economico-sociale sullo sfondo di un orizzonte etico-antropologico.

Chiarito questo cambio di paradigma che si prospetta nel mondo della ricerca, il tema dell’interdisciplinarietà più che una scelta si presenta come una necessità ineludibile. La ricerca non potrà più realizzarsi soltanto nella sua veste specialistica. Tanto una comunità scientifica o un gruppo di ricerca specializzato quanto il singolo ricercatore, individuando il loro oggetto d’indagine nelle sfide della società, un ambito che si presenta per se stesso osservabile in modo trasversale da molteplici prospettive, dovranno mostrare un’apertura metodologica, categoriale e linguistica, che consenta loro di dialogare in modo fecondo con altri metodi, altre categorie e altri linguaggi, con altre discipline quindi. Qui sta il fulcro del discorso. Nel dialogo tra le discipline.

Tre sono le alternative possibili messe in evidenza da Ricci: la multidisciplinarietà, una meragiustapposizione che mette in contatto le discipline senza interferire sulla loro specificità; l’interdisciplinarietà, la quale contempla una maggiore interazione tra le discipline, senza tuttavia arrivare a una reale assunzione della prospettiva con la quale si tenta di cooperare; la transdisciplinarietà, un orizzonte quasi utopico di integrazione delle discipline, nel quale la specificità linguistica e metodologica viene messa a disposizione e, dove necessario, trasformata per una causa comune.


Il panorama italiano è desolante: alle naturali difficoltà riscontrabili in ogni tentativo di avvicinare identità molto differenti per linguaggio e procedure utilizzate, si aggiunge la fatica con cui le diverse discipline riescono ad agire in comune per delle finalità condivise. Vari i fattori individuati alla radice di questo blocco: settarismo, conservatorismo, chiusura e mancanza di coraggio verso il cambiamento, abitudine a sopportare, accettare o valorizzare soltanto il proprio habitat, timore nel favorire un eccesso di autonomia intellettuale nei singoli ricercatori.

Al di là degli ostacoli culturali e antropologici che segnano il modo tradizione di fare ricerca, sono stati indicati degli elementi che contraddistinguono un contesto progettuale in grado di sostenere, almeno, la sfida dell’interdisciplinarietà: la capacità di analizzare sistemi molto complessi; la promozione di un modalità di integrazione tanto verticale, attenta a coinvolgere realmente i portatori d’interesse durante tutta la fase progettuale, quanto orizzontale, vero fondamento di un lavoro in cui gli attori si sentano reciprocamente rafforzati dalla condivisione delle responsabilità; la capacità di combinare il fattore qualitativo con il fattore quantitativo; la predisposizione di un metodo condiviso di valutazione dell’impatto e dei risultati; la necessita di una visione prospettica che, all’ampliarsi dell’orizzonte di riferimento e della conseguente complessità, sappia ricalibrare la propria capacità di ridurre l’incertezza e risolvere i problemi; la presenza di un mediatore/coordinatore che operi costantemente per tessere il filo che lega le differenti specificità disciplinari; un comitato scientifico e, seppur costosa, una rivista scientifica che siano effettivamente espressione di un modo interdisciplinare di valorizzare la ricerca.


Una considerazione personale: l’Italia nel 2010 ha speso in Ricerca e Sviluppo l’1,26% del Pil, circa 19 miliardi, molto indietro rispetto alla media UE (addirittura sedicesima). I fondi europei contribuiscono alla spesa nazionale in Ricerca e Sviluppo per circa il 6 % del totale, un miliardo circa, non molto. Questi fondi, pertanto, sono certamente uno stimolo economico, tuttavia, dovrebbero essere interpretati e vissuti anche e soprattutto come uno stimolo politico. La Commissione Europea quando decide (in “dialogo” con il Consiglio Europeo e il Parlamento Europeo) i criteri sulla base dei quali contribuire economicamente allo sviluppo di un paese non è un mero creditore, è a tutti gli effetti un decisore politico, che, distinguendo ciò che ritiene giusto da ciò che ritiene ingiusto, stabilisce delle priorità e pone le basi per influenzare la struttura e i processi della società: fa politica. In un tempo in cui la politica nazionale è scomparsa (per un verso a causa dell’Europa stessa, per l’altro alla luce di un vuoto tutto italiano apparentemente colmato dalle larghe intese), l’Unione Europea, con tutti i deficit democratici che in molti le riconoscono, è in grado di offrire un orizzonte politico, criticabile, ma profondamente politico.

Orientare la ricerca sociale e umanistica verso un dialogo interdisciplinare fecondo con la ricerca scientifico-tecnologica, con le grandi sfide della società e con una certa idea di sviluppo e innovazione, è una scelta profondamente politica che dovrebbe essere abbracciata a prescindere da qualsiasi calcolo puramente economico. Sta alle Università trovare il modo migliore per esserne responsabili, con i finanziamenti che vengono dall’Europa, dalle istituzioni pubbliche e dalle imprese private. Il modo migliore per esserne responsabili potrebbe consistere, innanzitutto, nell’evitare di scambiare la Commissione Europea per un bancomat senza cogliere il senso politico dei programmi promossi e, quindi, trovarsi del tutto impreparati o compiacenti di fronte al pericolo, ad esempio, che la dimensione umanistica propria delle scienze sociali sia inglobata, assorbita e ridotta ad essere un mero strumento della ricerca tecnologico-scientifica e della ricerca del profitto per il profitto, magari abbellendole con una spruzzata di finto umanesimo. Un vecchio problema che potrebbe acuirsi in un paese senza politica, alla disperata ricerca di fonti di finanziamento, dove la spesa per l’istruzione terziaria (Università e Scuole di Alta Formazione) rappresenta lo 0,8% del Pil (ultima dei paesi Ocse, in cui la media è l’1,4%), e dove, quindi, lavorare per cercare soluzioni, generare opportunità e costruire capacità, e non per sopravvivere vendendosi al primo che paga, sta diventando sempre più difficile se non impraticabile. L’ennesima sfida sociale. Probabilmente una delle più urgenti. Risolvibile soltanto con un’altra politica Europea e con una vera politica nazionale, ammesso che quest’ultima sia ancora possibile.


Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.

This website uses cookies. By continuing to use this site, you accept our use of cookies.  Per saperne di più